Le remote origini del raggiro “CIP 6” , 1a puntata
Scritto da redazione   
sabato 29 settembre 2007

(Il 22 settembre appena trascorso, la Rete Nazionale Rifiuti Zero ha promosso la giornata nazionale contro i sussidi all'incenerimento -la prima? O anche l'ultima?-  un fiume di miliardi sottratto alla tasche dei cittadini e regalati a ingrassare petrolieri e inceneritoristi mentre la legge li destinerebbe a promuovere le energie rinnovabili  che invece ricevono poche briciole della ricchissima torta.                                                                                                      Proviamo a scrivere la storia di questa vergogna nazionale che anche l'attuale  governo Prodi di fatto non sana perpetuando la truffa. ndrnoinc)

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LE REMOTE ORIGINI DEL RAGGIRO “CIP 6”  -  16/04/2005

 

Nel libro “Licenziare i padroni ?” (Edizioni Feltrinelli, marzo 2003) Massimo Mucchetti racconta una serie di vicende non edificanti delle quali sono stati protagonisti certi “poteri forti” privati italiani, in collaborazione (o in complicità) con aziende di stato e ministeri, e perciò con coloro che, pro tempore, hanno governato l’Italia.

Fra quelle vicende, l’ "affare Montedison” spicca per aver dominato la stagione tormentata e micidiale, non solo in senso figurato (10 suicidi), detta “di Mani pulite”. Il gigante era finito sbriciolato, riducendosi alla sola Edison. Ne era derivato un giro finanziario non limitato all’ambito italiano, perché coinvolgeva l’EdF – Electricitè de France, e terribilmente complicato, almeno per i non specialisti. Ragione per cui lascio la parola, anzi la penna, anzi la tastiera, a Massimo Mucchetti (che oggi è editorialista economico del Corriere della Sera), avvertendo che alcuni grassetti e sottolineature sono miei. Ebbene, Mucchetti all’inizio del 2003 scriveva:

<<A questo proposito, un prima cartina di tornasole sarà la rispondenza tra l’obiettivo dichiarato di evitare l’invasione dell’industria elettrica italiana a opera di un monopolio di stato estero e i ri-sultati che verranno in concreto raggiunti. Francesco Cossiga se ne è già fatto un’idea. Intervistato da “L’Espresso”, il presidente emerito della Repubblica ha definito la Fiat “il cavallo di Troia dell’Edf” e il suo presidente d’onore Giovanni Agnelli “il testimonial dei francesi, come tale generosamente retribuito”. Un’informazione più tecnica l’ha fornita il banchiere torinese Alfonso Izzo nel corso della citata indagine parlamentare sulla crisi della Fiat. L’amministratore delegato del Sanpaolo Imi ha spiegato che, in seguito a nuovi accordi, la Fiat cede alle banche il 14 per cento di Italenergia in cambio di finanziamenti necessari a superare il suo difficile momento. Queste banche, a loro volta, hanno la facoltà di vendere a Edf il loro 23 per cento di Italenergia a partire dal 2005.

Analoga possibilità ha ottenuto la Tassara per il suo 20 per cento. Morale: fra tre anni, il monopolio di stato francese avrà la maggioranza assoluta della Edison. L’unica speranza che questa furbata non si consumi è riposta nella possibilità che, nel 2005, la Fiat sia tornata a profitti tali da poter effettuare un grande investimento: ricomprarsi la quota di Italenergia appena ceduta alle banche, assieme alla partecipazione che esse già avevano in Italenergia. In quel caso la Fiat, sola o con uno o più partner, avrà la maggioranza assoluta di Edison e l’Edf una minoranza assai robusta. Attenzione alle date il 2005 viene dopo il 2004, quando la Fiat potrà vendere la Fiat Auto alla General Motors.

La seconda cartina di tornasole è rappresentata dal destino della conglomerata di Foro Bonaparte. Al termine delle due offerte pubbliche d’acquisto il debito consolidato del raggruppamento Itale-nergia-Montedison-Edison sfiora il 14 miliardi di euro. Non si può dire che sia lo stesso che portò al crak i Ferruzzi nel 1993, ma è comunque così alto da precludere ai nuovi padroni qualsiasi pos-sibilità di guadagno. Di qui la decisione di smontare la conglomerata e venderla a pezzi. Una linea di condotta che, come abbiamo visto all’inizio del capitolo, viene perseguita con determinazione dal nuovo management insediato dalla Fiat.

La morale non è entusiasmante. Tanta profusione di intelligenze e di denari, di ambizioni smisurate e machiavelliche alleanze, che hanno riempito le cronache dei giornali e i portafogli degli specu-latori più fortunati, ha finito coll’espellere dall’Italia quanto di buono c’era in origine e con il partorire un mostriciattolo. Nel 1960 la Montecatini era capace di depositare 1500 brevetti; oggi in Foro Bonaparte non sanno nemmeno più dirti se ne hanno realizzato ancora qualcuno nell’ultimo ventennio del secolo. Negli anni ottanta, Serafino Ferruzzi aveva costruito una vera e propria multinazionale dello zucchero. Sparita, venduta a pezzi e bocconi. Di quello che fu il secondo gruppo industriale privato italiano resta l’azienda elettrica Edison. E la Edison, nonostante i suoi bravi ingegneri, deve essere considerata un mostriciattolo perché, azienda privata, fa i suoi utili in misura preponderate alle spalle della cittadinanza grazie al provvedimento numero 6 adottato il 29 aprile 1992 dal Comitato Interministeriale Prezzi, il famigerato Cip 6 .

Scandaloso Cip 6
Quel provvedimento è il frutto di un accordo scandaloso fra il Gotha del capitalismo italiano, l’Enel e il Governo Amato che merita di essere ricostruito perché minaccia di trasformare il finale dell’affare Montedison in un’autentica beffa. Facciamo dunque un altro passo indietro e torniamo di nuovo agli inizi degli anni novanta.

In quel tempo l’Italia avverte il bisogno di nuove centrali per soddisfare una crescente domanda di energia elettrica. Le potrebbe costruire l’Enel, monopolio di stato. Ma alcuni industriali privati, ai quali era stato concesso fin dai tempi della nazionalizzazione di produrre energia elettrica a uso e consumo delle proprie fabbriche, chiedono di poter essere loro a provvedere. Tra i primi a muoversi sono la Edison (Gruppo Montedison) e la Sondel (Gruppo Falk), l’Eni, i petrolieri privati, i Moratti e i Garrone in testa, ansiosi di trasformare un costo – lo smaltimento degli scarti di raffineria – in un ricavo, anzi in una rendita. Più tardi, entrano in partita anche gli ex presidenti della Confindustria, Vittorio Merloni e Luigi Lucchini. Insomma, molti dei più grandi e dei più potenti fiutano l’affare.

Il ministero dell’Industria sta predisponendo una legge, la numero 9 del 1991, per premiare le energie pulite, quando a questo Gotha viene l’idea vincente: perché non chiedere per le centrali a gas di nuova costruzione, e per le altre che verranno innalzate a lato delle raffinerie, tariffe simili a quelle che saranno riconosciute agli impianti idroelettrici, eolici o alimentati da biomasse? La pretesa è un po’ forte: il gas non è una fonte rinnovabile. Ma non saranno le parole a fermare una buona idea. Basta dire che è come se fosse, e il gas naturale diventa una fonte assimilata. Proprio così: la legge parla di fonti rinnovabili e assimilate. Non simili, perché non lo sono, ma rese tali: assimilate per decisione del Principe.

Trovato l’escamotage semantico-ideologico, si entra nel merito: chi compra e a quali prezzi. L’Enel, allora presieduto da Franco Viezzoli, cerca di affondare l’iniquo progetto. Ma non ce la fa. Non resta che applicare la legge: l’Enel deve comprare tutto a un prezzo da stabilire che poi con-correrà a formare la bolletta degli italiani. Avendo trovato, dopo l’escamotage, anche un comodo compratore unico, ai sedicenti concorrenti viene consentito un colpo incredibile: anzichè ribassare un po’ le pretese, riescono a raddoppiare o quasi le agevolazioni. Che avranno la durata di quindi-ci anni dall’entrata in funzione della centrale, se ammessa alla lista del Cip 6.

La tariffa è un vero miracolo italiano. Anzitutto va a i coprire i costi che l’Enel avrebbe dovuto so-stenere per costruire nuove centrali. Si prende a modello una centrale Enel a ciclo combinato (quella non troppo efficiente di Trino Vercellese) e si pattuisce che il costo evitato di impianto rap-presenta un prezzo base di 2,3 centesimi di euro al chilowattora. La legge 9 prevede che questo sia un costo mobile: aggiornato al rialzo in seguito all’incidenza dell’inflazione secondo l’Istat, ma anche corretto al ribasso perché, migliorando le tecnologie, i costi di impianto e di esercizio cala-no. Secondo stime dell’Enel, infatti, l’incidenza del costo evitato reale di impianto è sceso nel 2000 a 1-1,3 centesimi al chilowattora. Incredibile a dirsi, il ministero concede il ritocco per inflazione e si dimentica il ribasso in seguito all’aggiornamento tecnologico. E il Gotha, sempre pronto a fare la predica ai pensionati, prende e porta a casa. E quando l’Autorità per l’energia e il gas sistema un po’ le cose nel 1999, si guarda bene dal restituire il beneficio.

La seconda componente della tariffa è data dal costo del combustibile che l’Enel evita di comprare: un costo variabile per definizione, ma tendenzialmente superiore a quello reale, che scende con il miglioramento tecnologico degli impianti. Infine, c’è l’incentivo diretto, pari a 2,3 centesimi di eu-ro per chilowattora. L’Enel garantisce l’acquisto dell’intera produzione per otto anni a questa ta-riffa di gran favore, e poi per altri sette anni a una tariffa che non comprende più l’incentivo diretto e tuttavia resta ugualmente assai più alta dei valori di mercato.

Siccome gli incassi sono sicuri, la costruzione delle nuove centrali si paga con capitali presi a pre-stito dalle banche italiane e internazionali. E’ l’epopea del project financing a rischio zero: una pacchia da non credere, tanto è vero che, per scongiurare il pericolo di un ripensamento da parte del Comitato interministeriale prezzi, che cambia al variare dei governi, l’ormai potente lobby de-gli elettrici privati ottiene il consolidamento legislativo del beneficio. Per una beffa della storia, questo aiuto pubblico diventa legge dello stato nel corpo dello stesso provvedimento che costitui-sce l’Autorità per l’energia alla quale viene deputato il duplice compito di tutelare la concorrenza e ridurre le tariffe.

La Commissione UE, di solito occhiuta, non interviene perché gli italiani inviano a Bruxelles la legge 9 del 1991, ma non il provvedimento Cip 6, modesto atto amministrativo. E quando, nel gen-naio 2002, il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, cerca di toccare qualcosa, sono gli ambasciatori di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti a intimare al governo italiano di rispetta-re le promesse del 1992. E il governo fa subito marcia indietro.
Con la liberalizzazione del mercato elettrico va anche peggio. All’Enel si è sostituito il Gestore della rete di trasmissione nazionale, che a partire dal 2001 ritira l’energia Cip 6 ai prezzi Cip 6 e poi la mette in gran parte all’asta sul mercato libero. Nell’anno di esordio, il Gestore compra 47 mila gigawattora dai produttori Cip 6 pagandoli 8370 miliardi di lire e li rivende a poco più della metà ai grandi consumatori, che hanno accesso al mercato libero. I 3190 miliardi di differenza ce li rimettono le famiglie e le piccole imprese che sono servite dall’Enel in regime di mercato vinco-lato, e cioè con tariffe decise dall’Autorità per l’energia e il gas, tenendo conto del “buco” da coprire.

Poiché le agevolazioni durano quindici anni, il trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini a quelle di pochi privilegiati ammonta, secondo stime provvisorie, alla bellezza di 60 mila miliardi di lire.>>

Seguono considerazioni sulle spaventose distruzioni di ricchezza determinate da quell’ “affaire” e poi la conclusione del capitolo:

<< Che dire? Forse, sarebbe valsa la pena di lasciar fare al mercato e ai tribunali il loro duro lavoro nel 1993. Fino in fondo e senza rete. Ma nell’Italia di allora non ci aveva seriamente pensato nessuno. E sono in pochi a pensarci anche adesso (2003, n.d.r.)>>

Beh, del mercato oggi non mi fiderei tanto, ma i tribunali ci sono ancora.
Leonardo Libero

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Ultimo aggiornamento ( venerdě 12 ottobre 2007 )